Il 26 aprile 1986 alle ore 01:23:45 locali, riporta wikipedia,  la centrale stava effettuando un esperimento definito come test di sicurezza. Si voleva verificare se la turbina accoppiata all’alternatore potesse continuare a produrre energia elettrica sfruttando l’inerzia del gruppo turbo-alternatore anche quando il circuito di raffreddamento non producesse più vapore. Per consentire l’esperimento vennero disabilitati alcuni circuiti di emergenza. Il test mirava a colmare il lasso di tempo di 40 secondi che intercorreva tra l’interruzione di produzione di energia elettrica del reattore e l’intervento del gruppo diesel di emergenza. Questo avrebbe aumentato la sicurezza dell’impianto, che avrebbe provveduto da solo a far girare l’acqua nel circuito di raffreddamento fino ad avvenuto avvio dei diesel.

Ma qualcosa andò storto: sempre wikipedia, riporta  che al medesimo orario il reattore numero 4 esplose. Si trattò di una liberazione di vapore surriscaldato ad altissima pressione che sparò in aria il pesante disco di copertura – oltre 1000 tonnellate – che chiudeva il cilindro ermetico contenente il nocciolo del reattore. All’esplosione del contenitore seguì il violento incendio della grafite contenuta nel nocciolo, incendio che in alcune ore disperse nell’atmosfera una enorme quantità di isotopi radioattivi, i prodotti di reazione fissili contenuti all’interno. Fu il primo incidente nucleare ad essere stato classificato come livello 7, il massimo livello della scala INES degli incidenti nucleari; il secondo caso ad essere classificato come livello 7 è quello della centrale nucleare di Fukushima in Giappone, avvenuto l’11 marzo 2011.

Le esplosioni non furono di tipo nucleare – non si trattò di una reazione a catena incontrollata di fissione nucleare come avviene nelle bombe atomiche – bensì ebbero una causa chimica. Il surriscaldamento del nocciolo dovuto all’improvvisa perdita di controllo sulla reazione nucleare portò al raggiungimento di elevatissime temperature che fecero arrivare la pressione del vapore dell’impianto di raffreddamento ad un livello esplosivo. Si innescarono inoltre reazioni fra le sostanze chimiche contenute (acqua e metalli), inclusa la scissione dell’acqua in ossigeno e idrogeno per effetto delle temperature raggiunte, che contribuirono a sviluppare grandi volumi di gas.

Una grande nube radioattiva si sprigionò e, dato che come ben sapete e sempre dico, l’atmosfera non ha confini, si diffuse subito, trasportata dai venti, verso l’Europa Settentrionale.

Il 26 aprile 1986 infatti sull’Europa era presente una profonda saccatura, con una depressione sulla penisola Iberica che portava, verso l’Italia, venti meridionali umidi. A Bologna per esempio le temperature oscillavano fra i 13.1°C di temperatura minima e i 18°C di temperatura massima con qualche  pioggia. La depressione poi avanzò verso l’Italia e il giorno 28 fu una giornata perturbata, con una depressione sull’Italia centrale che causò per esempio 32 mm di pioggia a Modena Osservatorio in una giornata fredda simile a quelle di questi giorni del trentennale della catastrofe, ma le correnti erano ancora di origine mediterranea ed anzi, ancora verso la Bielorussia e l’Ucraina, i venti spostavano la nube verso altre zone. La nube arrivò fra fine aprile e i primi di maggio, anche con piogge che causarono la deposizione al suolo dei radionuclidi. Notiamo sempre su Bologna 8 mm il giorno 30 aprile 1986.

La situazione però cambiò dal giorno 29 con l’allentamento della depressione verso la Grecia: infatti si formò, beffardo per noi, un anticiclone sull’Europa centrale che attivò un afflusso di correnti da est. Le masse d’aria si misero in movimento proprio dalla russia, Bielorussia ed Ucraina ed in circa 72 ore, come testimoniano le retrotraiettorie di rianalisi basate sul modello NOAA HYSPLYT, le masse d’aria arriveranno, attraverso la porta di bora, proprio in pianura Padana. Le conseguenze non mancarono di farsi sentire: sempre da wiki, “La rivista La Nuova Ecologia e la Lega per l’Ambiente, ai primi di maggio, resero invece noti, durante una conferenza stampa, i dati che documentavano la presenza preoccupante di radionuclidi su molte aree del Paese. Nei giorni successivi le autorità vietarono perciò il consumo degli alimenti più a rischio come latte e insalata[52]. Il 10 maggio a Roma una grande manifestazione popolare a cui parteciparono più di 200.000 persone segnò il primo passo verso il referendum che l’anno successivo portò all’abbandono dell’energia nucleare in Italia.

Per giorni e giorni insomma fu vietato il consumo di latte e di ortaggi a foglia larga: ricordo personalmente anziani che dicevano “ma la mia insalata è del mio orto”, ma poco importava, la nube contaminò, principalmente con Iodio 131 e Cesio 137, anche il nostro paese. Oggi, lo Iodio 131, che decade in fretta, circa 8 giorni il “tempo di dimezzamento”, è ormai sparito, ma non ha mancato, indirettamente e ad anni di distanza, di causare problemi, per esempio alla tiroide. Non così il Cesio 137, che si dimezza in 34 anni. Oggi insomma nell’ambiente ne è presente, molto disperso, la metà di allora, ma seppure in tracce, cioè in quantità minime, resterà nel sottosuolo, nei sedimenti e perfino, dove non ritirati a causa del riscaldamento globale, nei ghiacciai alpini!

Al di là di questo, e senza reinnestare la discussione sul nucleare, giustamente a mio avviso definitivamente accantonato per il nostro paese, riflettiamo a quali sarebbero state le conseguenze di un incidente simile in una delle centrali Italiane, erano 4, due delle quali nel nord italia, a Trino Vercellese e a Carso, in provincia di Piacenza e quindi nella nostra regione. Basti pensare che attorno  Chernobyl fu evacuata, ed è ancora contaminata, un’area di 30 km nel raggio della centrale.

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